14 febbraio 2014

Il Manifesto di Birba

Voglio provare a tradurre questo post che rappresenta il senso di ciò che ho iniziato a fare da qualche tempo. Si tratta della recensione di un libro che personalmente non mi sembra così illuminante.

"Ohmiodioilconsumismodeipaesiricchigenerapovertònelterzomondoelarobaprodottaacostibassièscadente!" (siete riusciti a leggerlo?)

"... Ma va?" 

Però so benissimo che prendere se stessi come metro del resto del mondo non va bene, a parte il peccato di narcisismo, mi convincerei di una realtà che non esiste. Tant'è vero che, se mi guardo intorno, il mondo va al contrario di come vorrei e spesso mi sento come Don Chisciotte, però donna e con un gatto al posto del ronzino. E poi perchè non sarei il metro, semmai il metro e mezzo...

(Grazie all'autrice Feisty Red Hair)

IPERVESTITI
La scomoda verità sullo shopping a buon mercato

Ho appena terminato un libro che mi ha colpita. Si intitola "IPERVESTITI La scomoda verità sullo shopping a buon mercato" dell'autrice Elizabeth L. Cline, che esplora i profondi, oscuri problemi dietro alla scadente "fast fashion" che domina l'industria dell'abbigliamento di oggi. Il libro esamina i grandi negozi al dettaglio come Zara, H&M, Forever 21, Old Navy, Target e Walmart, e di come la vendita di ciò che è essenzialmente vestiario usa e getta abbia orribili conseguenze per il mondo intero.


Come prima cosa, c'è la questione del consumismo Nordamericano. Dato che i vestiti costano poco, tutti comprano tanto. La qualità non importa in fondo perchè, quando una t-shirt nuova da 15 dollari si sforma nella lavatrice o si autodistrugge dopo averla indossata poche volte, può essere facilmente rimpiazzata da qualcosa ugualmente a buon mercato. Così le persone continuano a comprare, accumulare, e gettare via. Non ci sono incentivi all'aver cura di qualcosa perchè non costa praticamente nulla, e inoltre non avrebbe senso perchè non c'è nulla di cui avere cura! Gli abiti praticamente si rovinano per mancanza di qualità.

Secondo punto, il problema della produzione delocalizzata. La ragione per cui i negozi possono vendere tali vestiti a poco è perchè questi vengono prodotti oltreoceano a  basso costo. Fino al 1997, il 50% dei vestiti indossati dagli Americani erano ancora made in the U.S. Oggi soltanto il 2%; e tuttavia, il tasso di disoccupazione è più alto che mai. Secondo Cline, se gli Americani spendessero l'1% delle loro entrate disponibili per i prodotti nazionali, ciò creerebbe 200,000 nuovi posti di lavoro ogni anno. Ma siamo troppo attaccati ai prezzi bassi per desiderare di pagare di più per la produzione nostrana, e rivenditori locali e designer più piccoli non hanno proprio i mezzi per competere con quei prezzi.

Terzo, le fabbriche di vestiti sono luoghi orrendi dove spesso gli operai guadagnano meno del salario minimo.
Sono essenzialmente schiavi dell'industria, senza possibilità di guadagnare abbastanza per dar da mangiare alle loro famiglie e pagare l'affitto, lasciati da soli nel mettere qualcosa da parte per il futuro o per l'istruzione dei loro figli. Ma le imprese non aumentano gli stipendi perchè i consumatori non vogliono pagare di più per i vestiti. È un circolo vizioso.

Il libro mi fa essere felice di vivere in una piccola città in cui ci sono pochi grandi negozi, il che rende più semplice evitare la tentazione di comprare. Spiega anche le esperienze frustranti che ho avuto spesso con i vestiti - jeans strappati la prima volta che li ho messi, magliette che si sformano, tessuti che si infeltriscono, scarpe che stazionano permanentemente nella scarpiera perchè troppo scomode da indossare ecc. Mi sono davvero sentita meglio dopo aver saputo che si tratta di una questione di qualità e che non è detto che debba sempre essere così.
Ho apprezzato la proposta di Cline per un movimento  "vestiti slow" (simile allo slow-food). Le persone hanno bisogno di disintossicarsi dalla dieta fast fashion. La soluzione è sia iniziare ad investire nell'abbigliamento ideato e realizzato localmente ( sì, investire - perchè si tratterà di una maggiore spesa economica, ma sarà probabilmente molto più bella, che si indossa meglio e più durevole), o iniziare a cucire, rammendare, e reinventarsi i vestiti da soli. Mi piace soprattutto quest'ultima idea, anche se non  so nulla di cucito. Saper cucire è favolosamente liberatorio e utile, proprio come saper cucinare.
 Raccomando questo libro,  ma dovete essere preparati ad iniziare a guardare le etichette dei capi,  i tessuti e gli stili sotto una nuova inquietante luce.


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